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Читаем по-итальянски Antonio Tabucchi Sogno di Publio Ovidio Nasone


A Tomi, sul Mar Nero, una notte del 16 gennaio dopo Cristo, una notte di gelo e di bufera, Publio Ovidio Nasone, poeta e cortigiano, sognò che era diventato un poeta amato dall'imperatore. E in quanto tale, per miracolo degli dèi, si era trasformato in una grande farfalla.
Era un'enorme farfalla, grande quanto un uomo, dalle maestose ali gialle e azzurre. E i suoi occhi, smisurati occhi sferici da farfalla, abbracciavano tutto l'orizzonte. Lo avevano issato su un cocchio d'oro, allestito appositamente per lui, e tre coppie di cavalli bianchi lo stavano portando a Roma. Lui cercava di tenersi in piedi, ma le sue esili zampe non riuscivano a reggere il peso delle ali, così che era obbligato ogni tanto a reclinarsi sui cuscini, con le zampe che sgambettavano in aria. Alle zampe portava monili e braccialetti orientali che mostrava con soddisfazione alla folla plaudente.
Quando arrivarono alle porte di Roma, Ovidio si tirò su dai guanciali e con grande sforzo, aiutandosi con le zampe svettanti, si circondò il capo di una corona d'alloro. La folla era in visibilio e molti si prosternavano perché lo credevano una divinità dell'Asia. Allora Ovidio volle avvertirli che era Ovidio, e cominciò a parlare. Ma dalla sua bocca uscì uno strano sibilo, un fischio acutissimo e insopportabile che obbligò la folla a mettersi le mani sugli orecchi.
Non sentite il mio canto?, gridava Ovidio, questo è il canto del poeta Ovidio, colui che ha insegnato l'arte di amare, che ha parlato di cortigiane e di belletti, di miracoli e di metamorfosi!
Ma la sua voce era un fischio indistinto, e la folla si scostava davanti ai cavalli. Finalmente arrivarono al palazzo imperiale e Ovidio, reggendosi goffamente sulle zampe, salì la gradinata che lo portava dal Cesare.
L'imperatore lo aspettava seduto sul suo trono e beveva un boccale di vino. Sentiamo cosa hai composto per me, disse il Cesare.
Ovidio aveva composto un poemetto di agili versi leziosi e lepidi che avrebbero rallegrato il Cesare. Ma come dirli?, pensò, se la sua voce era solo un sibilo di insetto? E allora pensò di comunicare i suoi versi al Cesare facendo dei gesti, e cominciò ad agitare mol-lemente le sue maestose ali colorate in un balletto meraviglioso ed esotico. Le tende del palazzo si agitarono, un vento fastidioso spazzò le stanze e il Cesare, con irritazione, scagliò il boccale sul pavimento. Il Cesare era un uomo burbero, che amava la frugalità e la virilità. Non poteva sopportare che quell'insetto indecente eseguisse davanti a lui quel femmineo balletto.
Battè le mani e i pretoriani accorsero.
Soldati, disse il Cesare, tagliategli le ali. I pretoriani sguainarono il gladio e con perizia, come se potassero un albero, tagliarono le ali di Ovidio. Le ali caddero a terra come se fossero molli piume e Ovidio capì che la sua vita finiva in quel momento. Mosso da una forza che sentiva essere il suo destino, fece dietro-front e ondeggiando sulle sue atroci zampe ritornò sulla terrazza del palazzo. Sotto di lui c'era una folla inferocita che reclamava le sue spoglie, una folla avida che lo aspettava con le mani furiose.

E allora Ovidio, ballonzolante, scese le scale del palazzo.


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