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Читаем по-итальянски Marco Bettini Color sangue (2)


Non sapeva dire quando fosse successo, esattamente. Da un giorno all’altro le strade intorno si erano riempite di marocchini, tunisini, nigeriani, che bevevano, si picchiavano e si accoltellavano nei bar.

Il suo quartiere, una volta cuore rosso operaio della città, si era trasformato in un suk arabo. La quieta, tradizionale alternanza di case gialle e palazzi color mattone rendeva il contrasto ancora più acuto. Gli immigrati avevano preso visibilmente possesso dell’unico bene a loro disposizione: lo spazio all’aperto, in mezzo al dedalo di stradine intitolate ai pittori dell’età moderna. In nome dell’Islam, della miseria, della voglia di riscatto, era nata una Casbah corrosa dal vino.

Prima erano arrivati i cinesi, con i loro negozietti dormitorio. Famiglie di otto persone abitavano, mangiavano, lavoravano, dormivano e sognavano nel retrobottega di una pelletteria. Avevano aperto ristoranti, sartorie, bische clandestine. Si sgozzavano per il mah-jong, riciclavano i proventi del traffico di oppio e del mercato degli schiavi. Si ammazzavano solo tra loro, facevano sparire i cadaveri in silenzio e rimpiazzavano il morto con un nuovo venuto che ne assumesse l’identità.

Dopo, molto dopo, erano arrivati gli africani, i magrebini, gli arabi. Infine, per ultimi, spinti dal crollo dei regimi dell’Est, albanesi, polacchi, romeni, serbi ed etnie assortite.

Pelli nere e consuetudini islamiche, odori di semola bollita e spezie piccanti, magrezze da indigenza e da Ramadan, facce olivastre e incarnati bianco sporco si erano abbattuti di colpo sul color rosso e ocra della città, sbriciolandolo in un mosaico bizantino.

Marco era rimasto spiazzato dalla nuova geografia urbana. Certi piccoli piaceri, come le passeggiate in piena notte, quando tornava dal giornale, adesso erano pericolosi. Non voleva cedere al sentimento comune contro gli immigrati, soprattutto perché l’odio si nutriva di idee troppo rozze per i suoi gusti intellettuali. Però l’africanizzazione del quartiere si accompagnava a un senso di minaccia perenne, basata su facce, gesti e colori sconosciuti.

Fu con disagio che Marco notò come il ragazzo continuasse a seguirlo. Accelerò il passo. Non troppo, per non lasciar trasparire l’allarme. Evitò di voltarsi, ma gli restò appiccicata la sensazione che l’altro lo pedinasse, sempre più vicino.

Quando raggiunse la Volvo, parcheggiata in strada col muso rivolto verso di lui, scese con uno scatto dal marciapiede e mise l’auto tra sé e l’inseguitore. Aprì la portiera in fretta, salì e azionò la chiusura centralizzata. Finalmente al sicuro, osservò meglio il suo antagonista, rimasto bloccato sul marciapiede.


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