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Читаем по-итальянски GRAZIA VERASANI, L'AMORE E' UN BAR SEMPRE APERTO (3)


A un certo punto ho alzato gli occhi, che tengo sempre a terra, e ho visto panchine, erbetta, lampioni, scivoli, altalene e un chiosco di gelati. Da un vicino ho poi saputo che il parco esiste da due anni. Due anni che io non lo sapevo. Cioè, delle volte ho visto persone in tenuta da jogging svicolare dietro l’angolo, ma mai che mi sia chiesta dov’è che andavano a correre. Ora lo so: nel parco. C’è un parco proprio dietro casa mia. Io jogging non lo faccio, non sono un tipo sportivo. A scuola fingevo attacchi di tachicardia per farmi esonerare dall’ora di ginnastica; mi sentivo goffa su quei materassini e pensavo che solo gli idioti fanno capriole, corsette e salti in lungo. Solo nuotare mi piace, ma mi piace così, col pensiero. Mia madre l’anno scorso mi ha regalato una cyclette perché avevo messo su qualche chilo. Mai che ci sia salita sopra una volta. Sta al centro del salotto come una scultura moderna e i miei amici la usano come attaccapanni.

Anche a camminare non ho mai imparato. Infatti, più che camminare barcollo. Inciampo spesso, non so stare diritta e basta un filo di vento a farmi procedere come se fossi sempre lì lì per svenire o per sonnambulare. Il perché non lo so, ma è così da quando ero piccola. (I miei genitori credevano che bevessi di nascosto già a sette anni.) Quando cammino, il cielo lo guardo di rado. Non sollevo quasi mai gli occhi, non mi turbano stelle o nuvolaglie, ed è un sacco di tempo che non subisco l’infarto di un tramonto. Appena il sole cala sulla tangenziale, dietro case e colline, a parte il colore arancio e la forma da grosso mandarino sonnecchioso, non vedo altro che la mia malinconia definitiva. Però, essendo una persona che cambia spesso idea, umore e stato d’animo, allo stesso modo potrei dire che non c’è un solo attimo in cui non guardi il cielo o in cui non ne avverta la presenza fuori e dentro di me, soprattutto durante i temporali.

Raccatto volantini pubblicitari dalla mia buchetta e li travaso direttamente in quella di Bitonti, il mio vicino del secondo piano che si incazza sempre. Entro in casa, apro una scatoletta di Petreet al gusto di granchio per Ofilonoff, mi tolgo il cappotto, telefono a RadioTaxi e chiedo che mi mettano in contatto con Venezia 6. Dieci minuti dopo Mario mi richiama.

«Sveglia a quest’ora?» esclama stupefatto.

«Lasciamo perdere», gli dico. «Se non hai corse, ti aspetto per un toast».

«Vengo più tardi, per il caffè», dice lui.

Okay, torno a letto e vado a farmi qualche film su un uomo. Vado a immaginare un po’ di scene roventi e frasette languide che gli direi se la vita fosse meravigliosa. Vado a masturbarmi senza mani, senza oggetti e senza ortaggi fino all’arrivo di Mario. L’uomo, ovviamente, è sempre lo stesso. Pietro.

Tra un ciack e l’altro ho qualche interferenza: la realtà. Penso alla telefonata a Cera che non ho fatto e ai testi che dovrei scrivere e faxare a un numero di Roma. Okay, mi tiro su dal letto un’altra volta e indosso la mia solita divisa: un maglione nero e sformato, pantaloni di velluto blu scuro e vecchi stivaletti con cinque centimetri di tacco. Mentre, con il pettine in mano, tento di dare un senso al nuovo taglio dei miei capelli elettrici e castani, incrocio nello specchio la faccia biancolatte di una trentaseienne dalle occhiaie profonde, occhi verdastri, piccoli come capocchie di spilli, e un paio di labbra spesse e negroidi – le stesse di mio padre – sempre indelebilmente dipinte, persino quando mangiano o baciano (porto sempre un rossetto di scorta in qualche tasca, mi sentirei nuda senza). La donna che vedo non è bella, anche se, come buona parte delle donne di oggi, dimostra cinque o sei anni di meno. D’altronde viviamo in un mondo dove le trentenni sembrano ventenni, le quarantenni trentenni e così via. Grande conquista femminile: dieci anni di meno. («Ma va’, già quaranta? Te ne davo trentuno».)

Dentro, però, è tutta un’altra cosa. Bene. Cominciamo.


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