Читаем по-итальянски Antonio Tabucchi Si sta facendo sempre piu' tardi (6)
No: invece c'era un
paesaggio maestoso, di quel bello che è troppo bello quando è perfetto, come in
un affresco di Simone Martini, dove un cavallo bardato conduce un ineffabile
cavaliere verso un ineffabile altrove. E io guidavo la mia automobile. Però
piano, cercando di accompagnare le curve che solcano quelle colline
inclinandomi con il corpo ad ognuna di esse, come si fa con la bicicletta,
perché avrei voluto essere un ragazzino che percorreva le dolcezze di quel
paesaggio con la bicicletta nuova fiammante che gli hanno regalato a casa per
il suo compleanno. Era un borgo di quattro case, non di più, di pietra grezza,
neppure imbiancata, senza nessuno, un fienile dava sulla strada, con dei mattoni
traforati dai quali pendevano dei fili di paglia che fluttuavano alla brezza,
inutili, abbandonati anche loro. Ci sono cose così, che succedono e non sai
perché. Non c'era nessuna ragione di fermarsi in quel luogo deserto, neanche
per prendere un caffè, perché non c'era proprio nulla, a parte una stradetta
che sull'angolo del fienile, lasciando l'asfalto, diventava sterrata, e portava
verso la campagna: un altro nulla, là sullo sfondo. E io la presi.
In borghi di questo tipo c'è sempre una chiesetta o
una cappella, l'avrai notato. E' che in origine erano poveri agglomerati di
case contadine attorno alla villa padronale, e i contadini erano persone devote
al padrone e alla messa. E proprio lì, in fondo alla strada sterrata, fra due
cipressi, esattamente come nelle oleografie dell'Ottocento o nelle cartoline
dove oggi c'è scritto "The Heart of Civilization", c'era una
chiesetta. Abbandonata anche lei, come tutto il resto. Sulla punta del tetto
spiovente, in una bifora di mattoni aperta nell'azzurro, pendevano due campane
che sembravano piuttosto due campanacci per le vacche, e anch'esse inutilizzate
da tempo, si capiva. Ho parcheggiato la macchina proprio lì, sotto uno dei
cipressi. Subito dopo, filari di viti e cipressi che pennellavano le colline: i
nostri posti, per capirci. E tutto come doveva essere. Era il maggio. Ho
pisciato contro il cipresso, anche se non ne avevo necessità, forse attribuendo
inconsapevolmente a quell'atto fisiologico la ragione di essermi fermato in un
luogo in cui nessun motivo mi induceva a fermarmi. Il portoncino della
chiesetta era chiuso, ne ho fatto il giro attraversando le erbacce che ne
assediavano il perimetro, facendo attenzione a non disturbare le vipere che
amano quei luoghi abbandonati. Fra gli interstizi delle vecchie pietre
crescevano cespugli di capperi, con chiome fluenti che chissà perché mi hanno
fatto pensare ad Elettra, e ho cercato di ricordare dei versi che una volta
conoscevo, ma erano introvabili nella memoria. Ho colto un paio di capperi e li
ho masticati, anche se erano acerbi, e ne ho gustato l'agrezza, quasi che quel
sapore sgradito mi restituisse il senso di ciò che è accaduto, come una
penitenza sommessa e necesaria che ci ricordi con il suo sapore aspro la colpa
che abbiamo commesso. E ho pensato alla vita, che è surrettizia, e che
raramente mostra in superficie le sue ragioni, e invece il suo vero percorso
avviene in profondità, come un fiume carsico.