CITTÀ Città come Napoli, Milano, Messina, Torino, Bergamo, Catania, Urbino, Arezzo, Taranto sono maschili o femminili? Nel passato i nomi di città che avevano la desinenza in -o erano considerati maschili; oggi, invece, tutti i nomi di città vengono considerati femminili. Quindi si dice: la bella Torino, la mia Milano, la Palermo antica, sottintendendo sempre il nome città. É vero che uno scrittore famoso, Paolo Volponi, ha considerato maschile la sua città, e ha scritto
in un romanzo: «Urbino [...] stretto e marrone, a punta e scontroso», ma agli scrittori, si sa, tutto è consentito.
FRUTTI I nomi dei frutti sono quasi sempre femminili: la banana, la pesca, la noce, la mela, l’arancia; al frutto femminile corrisponde un nome d’albero maschile: il banano, il pesco, il noce, il melo, l’arancio. Nei casi seguenti sia il nome del frutto sia il nome dell’albero sono maschili: il cedro, il fico, il lampone, il limone, il bergamotto, il chinotto, il mandarancio, il mandarino, il pompelmo. I nomi dei frutti esotici sono quasi sempre maschili: l’ananas,
l’avocado, il cachi, il kiwi, il mango, il litchi, il maracuja. Un’ultima osservazione. Il plurale di frutto è frutti o frutta? I frutti indicano i prodotti delle piante: «i frutti dell’olivo»; oppure, in senso figurato, il risultato o il vantaggio che si ricava da qualcosa: «i frutti di una buona educazione». La (o le) frutta (con valore collettivo) indica i frutti che si comprano e si mettono a tavola: «un bel cesto di frutta»; «mettere la frutta
in tavola»; «frutta fresca e frutta secca». Questa varietà di forme si spiega, ancora una volta, con la storia della parola. Dal latino fructus, maschile, in italiano si è avuto frutto, anch’esso maschile, che al plurale ha dato regolarmente i frutti. Nel latino tardo, accanto a fructus si è sviluppata un’altra forma usata solo al plurale, fructa, da cui si è avuto, in italiano, frutta, usato sia al singolare (la frutta) sia al plurale (le frutta).
QUANDO
IL NOME E' DONNA «Le parole sono femmine, i fatti sono maschi», diceva un antico proverbio. Ai proverbi, si sa, tutto è consentito. A chi voglia usare una lingua italiana rispettosa non solo nei confronti delle regole, ma anche nei confronti delle donne, non tutto è consentito. Cominciamo dalla questione più spinosa e fonte, ancora oggi, di polemiche: la questione dei nomi di professioni e cariche al femminile. I nomi che indicano professioni o cariche pubbliche fino a una certa
epoca non prevedevano, per ovvi motivi, una forma femminile. Per vedere che cosa è cambiato, apriamo il «Corriere della Sera» del 23 settembre 2010 e leggiamo che cosa ha scritto Beppe Severgnini: «L’avrete saputo: a Milano ci sono 20 mila avvocati, la metà di tutta la Francia. In Italia sono 230 mila, e aumentano ogni anno di 15 mila. Magari avete visto anche la lettera al Corriere di una giovane avvocata (anonima e pentita): a 27 anni prende 500 euro al mese, e ammette di essere
fortunata. Almeno la pagano, e non la piazzano a fare fotocopie & caffè, come tanti colleghi coetanei». Avete letto bene: avvocata. Se lo scrive Severgnini, potete fidarvi. Ma se qualcosa non vi convince, e vi sembra che la parola «non suoni bene», o addirittura «sia brutta», aggiungeremo che, da un punto di vista grammaticale, la forma avvocata è del tutto legittima. La parola era usata fin dal Medioevo nel latino della Chiesa: la Madonna era definita advocata nostra nella
preghiera Salve Regina, e da qui è entrata nell’uso come attributo non solo di Maria, ma di molte sante. Non siete ancora convinti? Aprite un buon vocabolario della lingua italiana, e cercate la parola avvocato: scoprirete che, se si riferisce a una donna, la forma avvocata è del tutto corretta.